Nel mondo si investe più in fonti rinnovabili che tradizionali. Le imprese italiane sono ancora poco internazionali, ma cominciano a utilizzare nuovi strumenti finanziari, rileva un\’indagine di IEFE Bocconi-Ernst & Young. Il business delle energie rinnovabili è sulle bocche di tutti e nei portafogli di molti investitori. Nel 2009, per il secondo anno consecutivo, i nuovi investimenti nel mondo (163 miliardi di dollari) hanno superato quelli nelle energie tradizionali portando le rinnovabili a coprire il 25% della generazione elettrica mondiale. La crescita record interessa non solo i nuovi investimenti industriali ma anche le operazioni straordinarie: contando il valore delle acquisizioni il valore degli investimenti passa a 223 miliardi di dollari. I governi non sono passivi in tutto questo, ad oggi sono più di 100 i paesi che hanno messo in campo politiche di promozione e misure di sostegno delle energie rinnovabili.
Il processo di internazionalizzazione del settore è recente, ma in forte crescita grazie al nuovo interesse dimostrato dalle imprese energetiche e dal mondo della finanza, scrivono Annalisa D’Orazio e Federico Pontoni dello IEFE, l’Istituto di economia e politica dell’energia e dell’ambiente dell’Università Bocconi, in Investimenti all’estero in energie rinnovabili e ruolo delle politiche pubbliche, il rapporto di ricerca condotto in collaborazione con Ernst & Young presentato questa mattina in Università. “Le Istituzioni governative, in particolare nei paesi emergenti, giocano un ruolo importante sviluppando politiche energetiche ed economiche per attrarre investimenti diretti nel paese e alimentare una vera e propria ‘industria’ delle rinnovabili”, sottolinea Andrea Paliani, partner di Ernst & Young, che ha collaborato all’iniziativa. Con 43,! 7 miliardi di investimenti nel 2009, l’Europa è ancora l’area geografica maggiormente coinvolta, ma l’Asia, attestatasi a 40,8 miliardi grazie alla fortissima crescita cinese, è destinata a superarla. Il 43% degli investimenti riguarda l’eolico, con il solare (18%) e i biocarburanti (17%) a seguire.
Nei 27 paesi dell’Unione europea si concentra il 17,5% della produzione mondiale di energia da fonti rinnovabili e il 13% di questa è prodotta in Italia (il paese leader, con il 16%, è la Svezia).
L’internazionalizzazione, in questo settore, è stata fortemente condizionata in una prima fase dalle politiche di liberalizzazione dei settori energetici, mentre in una fase successiva (ancora in corso) un ruolo decisivo è svolto dagli obiettivi di sviluppo delle energie rinnovabili nei consumi nazionali dichiarati dai governi di un numero crescente di paesi. La presenza di condizioni incentivanti ha favorito la realizzazione di nuovi impianti (circa 100 miliardi di dollari nel 2009) nelle tecnologie mature e gli investimenti delle imprese e dei governi nello sviluppo di nuove tecnologie (28 miliardi di dollari in R&S e 18 miliardi a sostegno di società emergenti).
“La maggiore attenzione del settore finanziario è mostrata dal maggiore uso del capitale di borsa, dalla sempre più alta specializzazione degli istituti di credito in prestiti alle energie rinnovabili, dall’erogazione di linee di credito da parte delle banche di investimento allo sviluppo – Banca Mondiale, BCE – specifiche per le energie rinnovabili, dai nuovi strumenti finanziari per il sostegno alle nuove tecnologie (venture capital, carbon public finance)”, dice D’Orazio.
“Una piccola frazione della massa gestita da fondi di investimento è però attualmente investita in rinnovabili; con lo sviluppo del settore vedremo quindi un volume sempre più alto di liquidità affluire verso questa tipologia di investimento”, ribadisce Paliani.
Dall’indagine, condotta nei primi quattro mesi del 2010 e rivolta alle imprese italiane che svolgono attività di produzione e vendita di energia, emerge che più del 45% del campione ricava dall’estero meno del 5% del fatturato, mentre circa il 13% fattura fuori Italia più del 40%. Dal momento che i costi delle tecnologie rappresentano tra il 70% e il 90% del costo di produzione dell’energia, nella scelta di internazionalizzazione risulta decisiva l’affidabilità della filiera a monte. Tuttavia le imprese manifatturiere (tecnologie e componenti) italiane investono ancora poco all’estero, limite che si ripercuote su una minore capacità di internazionalizzazione nelle fasi a valle di realizzazione degli impianti.
Le politiche di sostegno alla produzione e alla vendita sono considerate molto importanti dagli intervistati, mentre il sostegno al capitale investito è ritenuto un fattore di minore importanza. Gli investimenti appaiono poco diversificati: si concentrano negli impianti eolici e idroelettrici, in minore grado nelle bio-energie (considerate troppo rischiose) e sono quasi assenti nel solare, a fronte delle numerose possibilità di investimento (fotovoltaico, termico e termodinamico) e di specifiche competenze nazionali.
Gli investimenti all’estero sono normalmente correlati a quelli nazionali (le imprese non si discostano dal loro core-business) e ciò influisce sulla scelta del paese target.
Desta qualche preoccupazione, più che il ritardo con cui l’industria italiana ha intrapreso il processo di internazionalizzazione, la sua concentrazione geografica nelle aree più vicine. Il 33% degli investimenti è nell’Unione europea e, il 22% nei Balcani, solo una quota minoritaria nelle aree a più alta attrattività di breve e lungo termine (Asia, Nord e Sud America, Africa).